D’un volo siamo a Kathmandu, nella valle che da
decenni ospita viaggiatori d’ogni dove alla ricerca di un periplo da
fare, attorno a qualcosa, a una montagna, a una città, a se stessi.
D’un tratto siamo pronti a saltare su un’auto e
a sfrecciare verso il Nepal centrale, dove poter cominciare a
camminare.
Kathmandu sparisce ben presto dietro ai bambù che ornano il Passo di
Thankot.
Scendiamo nella valle fino a Mugling, dove Trisuli e Marsyangdi si
uniscono a formare il grande fiume Narayan.
Dopo i pipàl giganteschi di Abu Khaireni si arriva a Dumre,
piena di polvere e camion e autobus dall’aspetto disfatto dagli
anni.
Prendiamo a salire per la strada nuova che giunge sino a Besisahar,
cittadina già simile a certi villaggi delle montagne, con la grande
strada centrale, molto western, le donne al balcone e i negozietti
costituiti da una sola porta che si apre su una nicchia nel muro.
Lasciamo Besisahar e l’imponente banyan
che ne chiude la via maestra, sempre avvolto in fili di offerte, giù
per il sentiero a scale di sasso che scivola verso la vallata della Paundi
Khola.
Primo ponte sospeso a Khudi, lunghissimo
ponte di bambù, da cui si esce con una scala tagliata nel bambù
stesso e poi nella terra su cui posano le poche case del paese, al di
là del fiume.
Costeggiamo sempre la Marsyangdi –
possente sino a Bhulbhule, nome onomatopeico che richiama il
gorgogliare delle rapide del fiume. Nuovo ponte sospeso, ma di ferro e
con cavi d’acciaio.
Saliamo nel sole e fra le erbe alte sino a Ngadi,
dalle casette e dai lodge appostati ai lati della strada
principale come a far la posta a turisti e viaggiatori.
Levata fresca a Ngadi,
nuova fuga verso un nuovo ponte che ci separa dalla vallata di Lampata
e dalla cresta verdissima di Bahundanda, villaggio degli ultimi
bramini.
Cresta verde e massi antichi raccolti attorno al
grande banyan che
impone la propria presenza alla piccola piazza del villaggio,
bellissimo, arroccato come castello agreste in capo alla valle.
Scendiamo fra terrazze verdissime, straordinario andare di onde
d’erba per ogni dove.
Molti passi nel sole prima di arrivare al bel ponte di Syange,
stracolmo di bandierine e panni stesi al sole.
Risaliamo dal fiume su per sentieri scoscesi a
strapiombo sulle acque della Marsyangdi che da qui si apre nel
cuore delle montagne una serie di gole infinite, che dobbiamo seguire
per giorni.
Una curva tagliata nella roccia a picco sulla vallata, quindi
un’improvvisa discesa al grande villaggio di Jagat.
Un antico tempio di pietre di salgariana memoria domina le case che
gli si raccolgono attorno, molto più in basso.
Continuiamo a costeggiare, dall’alto, il corso del fiume, per le
gole che paiono non avere termine alcuno.
Chamjé è un villaggio infossato ai piedi di altissime
pareti di roccia. Un ponte sospeso pare entrare nella larga crepa che
si apre dall’altro lato della montagna.
Giorno di salita all’aperto, caldo, fino a Sattàle, “le
sette case”, che si leva sull’altra bocca della gola.
Saliamo. Il sentiero è per lo più scavato nella
roccia. Gipeti dalle ali larghissime volteggiano sopra di noi, a una
decina di metri soltanto. Uno si lascia andare alla corrente della
valle e scompare d’un fiato tra le piante tropicali che orlano il
fiume.
Ad una nuova curva, pare di lasciare un mondo ed
entrare in uno nuovo. La gola, le rocce, il calore forte, tutto pare
arrestarsi dietro un muretto e un arco di bambù che ci fa entrare
nella vallata alluvionale
di Tal, primo villaggio del distretto di Manang.
Primo villaggio annunciato da un portale di pietra
con tre piccoli chorten tibetani, come saranno poi tutti i
villaggi manangi.
Tal in nepalese vuol dire lago e la vallata ospitava un lago, molto
tempo fa.
Passiamo sotto il portale, in mezzo alla prateria, e ogni cosa pare
cambiare. La cultura tibetana già annunciata dai piccoli stupa
sulle pietre della porta, i tetti piatti delle case, le vesti e gli
occhi delle genti che incontriamo nella lunga e larga strada maestra del
villaggio.
L’ospitalità e la bellezza del luogo ci inducono a pensieri pigri e
desideriamo restare lì, non andare più oltre.
Ma lasciamo anche Tal e passiamo per un nuovo portale, all’uscita nord
del paese, verso nuovi dirko bàato , sentieri aggettanti su gole
scoscese.
Attraversiamo Khotro e
Karte , a cui giungiamo passando su un ponte lungo e alto.
La sera arriviamo, stanchi ma affascinati, a Dharapani, secondo
grande villaggio di Manang.
Dai 1.880 metri del paese ci alziamo, l’indomani,
verso la porta e le case e il gompa – vale a dire il monastero
tibetano – di Bagarchap e poi a Danaque, ormai nella
foresta di conifere che si apre davanti a noi. Sulla sinistra, si
intravede, in alto, il favoloso Namun Bhanjhyang, il passo alto
che una volta costituiva l’unica entrata nella valle di Manang,
passando da Pokhara.
Il thè di Danaque ci apre nuovi orizzonti di forze e speranze , per cui
continuiamo per la foresta e il ponte crollato presso la grande cascata
dove gli abitanti dicono dimori il signore delle acque, uno spirito Naga.
Timang Besi e Lattamarang sono insediamenti che
scorrono verso di noi e scompaiono dietro i nostri passi che si
affrettano a salire fra i pini a Koto Qupar. Una gigantesca V di
rocce apre la via segreta alla valle di Nar e Phu, villaggi remoti di
gente sempre rimasta remota.
Guardiamo con malinconia il ponte che non possiamo
passare per addentrarci nella valle e proseguiamo verso Chame,
grosso villaggio e bazar dalle belle case, con un bel monastero e un
Lama che ci ospita e benedice.
Ci alziamo di appena 100 metri e passiamo per
l’insediamento di Thaleku nel folto della foresta, ai piedi di
enormi blocchi di roccia. Ma la visione della giornata ci arriva da
dietro la curva del bosco, oltre la quale si manifesta il bellissimo,
semplicissimo, straordinario villaggio di Bhratang.
All’uscita nord del villaggio, un lungo muro mani
con le ruote di preghiera buddiste. I resti di un ponte ove i kampa
pretendevano oboli dai viandanti, una routa di legno, sormontata da una
cappellina e fatta girare dalle pale immerse nell’acqua gelida del
torrente.
Il bosco ora è inframmezzato da frane e improvvise mancanze di vero
sentiero.
Passiamo sotto costoni di pietra e usciamo allo scoperto alla bocca di
un nuovo bosco, per trovarci dinnanzi all’imponente onda di roccia del
Paungda Danda che sfiora il cielo e sfida il vento, dall’alto
dei suoi 4.200 metri.
La nuova foresta di conifere è ripida e ci sono vari punti di sosta e
donne bellissime che offrono da bere ai salitori sudati.
Usciamo anche da questo bosco, tutto rigidamente in salita, e ci
troviamo sul piccolo altipiano dove sorge – a 3.060 metri di altezza
– Dukhur Pokhari, col suo stupa bianco, le ruote in lunghi
filari, le corna di yak e bufali a ornare i reliquari montani, le
bancarelle dei tibetani che vivono qui e raccolgono pezzi vecchi e nuovi
per chi giunge dal fondovalle.
Da qui si scorge la cima ghiacciata del Chulu Far East, in fondo alla
vallata di Pisang.
Dietro a noi, sulla destra, improvvisamente si materializza il Pisang
Peak o Jong Ri, che luccica dai suoi 6.092 metri di rocce e
ghiacci.
Dapprima appare Pisang Alta, sulla destra della vallata che percorriamo,
incontrando cavalli al pascolo, portatori e bimbi che giocano con le
pietre.
Pisang Bassa ci viene incontro con la sua immobile , semplice bellezza,
coi lodge larghi e puliti, lunghi balconi di legno, belle
finestre, e ancora muri mani,
e ruote di preghiera di tutte le dimensioni.
Sul fianco della montagna, Pisang Alta assomiglia a
un castello medievale con gli stendardi colorati che si distinguono
sullo sfondo brullo della montagna.
Ci allontaniamo da Pisang all’alba di un giorno fantastico e sopra di
noi l’Annapurna IV e II ammiccano col loro volto di ghiaccio eterno.
Saliamo al passo di Norodhara passando per una bella strada fra i
pini e dietro allo stupa di rito ai passi himalayani scorgiamo la valle
di Manang che si allarga e si allunga sino ai contrafforti del Tilicho
Peak.
Intanto, sulla sinistra, cominciano ad apparire i
massici dell’Annapurna III e del Gangapurna, giganti di pietra e
ghiaccio che occupano tutta una metà del cielo, al nostro sguardo.
Scendiamo nella valle dove un ponte di legno ci fa
attraversare sulla sinistra orografica della Marsyangdi.
Ci troviamo nei pressi di Braga , il cui
nome è stato trasformato dai nepalesi dal tibetano Drak-Kar che
vuol dire la Roccia Bianca.
Una grande roccia bianca pare il bellissimo e
antichissimo monastero che si inerpica letteralmente su per i pinnacoli
che lo circondano e lo sovrastano.
Braga è un villaggio fatato, un luogo speciale, ma il gompa è
chiuso per noi, che arriviamo quando il Lama se ne è andato al
villaggio vicino.
Manang è soltanto a un tiro di sguardo. Non sappiamo ancora cosa ci
aspetti al di là del cartello a colori che indica la via per
un’antica grotta ove meditò Milarepa.
Manang è là, gioiello della valle e delle montagne che ne sono la
montatura, Manang è un
sogno antico che si ripete ogni volta che qualcuno le si accosti per la
prima volta.
Grandi
chorten e stupa antichi orlano la via che porta a Manang.
Pare di stare viaggiando con Snellgrove, Tucci, la David Neel o altri
che ci hanno preceduto e ne hanno lasciato un ricordo nei propri
scritti, nella propria vita.
Manang è annunciata da un enorme chorten
sotto e dentro il quale si passa e si entra nel grosso villaggio dalle
grandi case.
Sulla montagna che sta dietro a Manang, in un anfratto della roccia,
sistemato ad eremo, Lama Deshi vive da 50 anni con la monaca che lo
aiuta a praticare, a vivere, ad accogliere coloro che salgono a prendere
la sua benedizione prima di varcare la soglia temuta dell’alto passo
del Thorong La.
Praken
Gompa , il monastero nella
roccia, alto sulla valle, dove volano i gipeti e le aquile nere di
Manang. Lama Deshi ci accoglie, ci fa parlare, ci parla, ci fa sentire
cos’è il potere racchiuso nella montagna, nella roccia della sua
straordinaria esistenza.
Lasciamo anche Manang, saliamo all’antico
villaggio di Tenji o Tankimanang, da cui si scorge ogni cosa : l’Annapurna
III, il Gangapurna, il lago glaciale ai suoi piedi, il serpente liquido
della Marsyangdi che fugge a sud, la via percorsa sin qui.
A 3.900 metri l’insediamento di Gunsang non è che una o due
case. Ma è anche un belvedere su quel che stiamo lasciando.
Di quel che ci attende dietro le curve del
sentiero, perennemente in salita, non possiamo che immaginare qualcosa.
Non si può immaginare qualcosa di quello che sta uscendo alla nostra
vista, la valle dei Chulu, Yak Kharka , Leder, i
canyon e le valli nascoste nella pietraia della Jarseng Khola, Thorong
Phedi, il luogo ai piedi della montagna.
Lunga
salita ad High Camp, tra due canali paralleli di rocce. Lunga
peregrinazione sulle morene talora innevate che costruiscono colline e
colline prima che si veda una fine e si arrivi ai piedi del passo,
racchiuso come una perla d’aria tra il Thorong Tse
e lo Yakgawa.
Dal Passo le bandiere mandano arcobaleni viventi di
luce su entrambi i versanti.
Verso la vallata dello Jhong Khola e Muktinath,
si scorgono le chiazze verdi dei campi di orzo e grano. La cuspide del
grande Dhaulagiri comincia a far capolino, sulla sinistra e svela
la parete est e nord, vera e propria piramide di energia protesa verso
il cielo.
Il bosco sacro di Muktinath con le sue 100 sorgenti che escono
dalle bocche di vacca sorridenti, col monastero del fuoco che si mescola
all’acqua, con gli antichi tempietti e il pozzo da cui si può sentire
il respiro della terra. Il luogo di pellegrinaggio più famoso dell’Himalaya
per essere stato visitato da Padmasambhava, dagli 84 Siddha indiani e da
Milarepa.
Ci troviamo in un simile luogo e ne assorbiamo volentieri le energie,
lasciandoci pervadere dalla magia della sua atmosfera.
Giù per la via che ci allontana da Muktinath Valley, su una rupe che fa
da spartiacque a tre canyon, sta in agguato il villaggio-fortezza di Jharkot,
ultimo baluardo di Baragaon ( “gli undici villaggi”), sorta di regno
appartato della regione, molti anni or sono.
Jharkot sta come un leopardo delle nevi, in agguato
contro chi voglia mutar l’energia sottile della valle.
Khinga è un pezzo magico caduto dal cielo nella valle
del Jhong Khola, che scivola lentamente e sinuosamente verso Kagbeni
(“il masso che sta alla confluenza dei fiumi”), a cavallo tra Kali
Gandaki e Jhong Khola.
Siamo
immersi nella vecchia età dell’oro medievale, quando ci si capiva con
gli sguardi pieni di trasfusa energia e col sorriso si trasmetteva la
forza di vivere.
Kagbeni è un luogo da cui ci allontaniamo con le
lacrime agli occhi, ogni volta che passiamo di qua. Ma piangiamo
discosti, per non turbare la fatica degli uomini che ci portano i sacchi
e guidano i nostri passi.
Andiamo un po’ avanti, per il letto della Kali Gandaki,
trapunta di saligram neri, dal cuore di ammoniti di milioni di
anni.
Cerchiamo l’ammonite di questa volta, perché fino a Jomosom c’è
speranza di trovarne nel greto vastissimo del fiume quasi in secca.
Troviamo pezzi di animali preistorici incastonati nelle pietre nere e
tonde. Le lacrime paiono andarsene per un po’ ma – sotto sotto –
tornano a galla e non riusciamo quasi a parlare per la commozione.
E’ sempre così... passiamo di qui, incontriamo la gente che
incontriamo ogni volta, continuiamo con loro antichi discorsi lasciati
sempre a metà, e ce ne andiamo.
E’ proprio diverso essere viaggiatori e non
turisti che guardano a casa ogni momento del viaggio. Anche noi facciamo
infinite e continue fotografie. Ma perché su esse contiamo perché per
un altro anno ci accompagni il ricordo di ogni pietra del nostro viaggio
fra questi villaggi.
Jomosom è un po’ simile a una città del Far West, come ce l’ha
fatta conoscere il cinema americano. C’è molto vento, una grande via
centrale, si attende in ogni momento di scorgere qualche pistolero che a
sua volta attenda il rivale e l’affronti dinnanzi all’Om’s Hotel o
alla fragile pista d’atterraggio che costeggia la strada che esce dal
villaggio.
La strada esce da Jomosom in salita e va verso Syang coi suoi chorten
bianchissimi sul costone di pietrame rossastro. Noi la seguiamo ancora
una volta e in poco tempo oltrepassiamo Syang e chorten e viaggiamo alla
velocità della luce verso Marpha, grande villaggio Thakali,
centro delle mele, delle albicocche, del liquore di mele, dello Stupa
gigante dipinto sulla montagna, del Lama Urgyen Pel-Zang-Po, vero
gioiello della valle della Thak Khola.
Scivoliamo anche noi, col fiume, la bellissima Kali
Gandaki, verso Tukucha, principale villaggio Thakali, Larjung
e Khobang, ai piedi
della colata di ghiaccio del Dhaulagiri.
La Kali Gandaki non accenna a restringersi sino a Kokhetanti
e a Kalopani. Poi fa un giro attorno a Lete, precipita a Lete
Khola e va veloce a Ghasa.
Il khani di Ghasa, la porta sud del villaggio, stabilisce
il confine culturale della gente tibetana, come, nella Valle della
Marsyangdi lo è Tal.
Tatopani è a poche ore , il punto più basso del trekking.
Gli ozi e le comodità di Tatopani paiono non finire per le poche ore
che ci si sta.
Dopo la grande frana dell’ottobre 1998, Tatopani non ha più riavuto
il vecchio sentiero che la collegava al ponte per Ghar Khola.
Percorriamo una pista scavata nella roccia, vero e proprio balcone
coperto sul fiume. Sull’altra riva, l’immensa frana è tuttora
presente ad occupare la vista di chi guardi.
Il sentiero aggettante ci conduce alle poche case che precedono il lungo
ponte che ci trasborda a Ghar Khola, ove sfocia nella Kali Gandaki
l’omonimo tributario, che scende dalla valle di Ghorapani, Chitre,
Sikha e Ghara.
Alle rocce di Ghar Khola, un tempietto indù guarda il trivio di
sentieri che vengono da Tatopani, Ghorapani e da Ratopani, a sud.
Scendiamo verso Ratopani e la famosa Hema Guest House, puntiamo alle
gole di Mahabir e ai sentieri tagliati nelle rocce sulla nuova gola
della Kali Gandaki, che si restringe e si costringe fra rocce impervie e
nere.
Il fiume ribolle sotto gli esili ponti sospesi che si intravedono
qua e là. Fa molto caldo. E’ la zona delle grandi farfalle
nere, che paiono uccelli, . E’ il sentiero che porta nella giungla
fino a Baisarì e a Beg Khola, oltre un ponte molto vecchio e
traballante.
Manca poco al sentiero disegnato nella parete sul fiume
che va a Galeshwor e a Beni.
Galeshwor ci viene incontro con le belle case di pietra e il ponte
elegante a cui si
accede per una scalinata bianca.
Beni,
sulla Myagdi Khola, che viene dalla valle per la quale si va a
cominciare il giro del Dhaulagiri.
Da Beni a Baglung varie volte abbiamo solcato la
pista di terra rossa, ma ora scegliamo la nuova strada che sta al di là
del ponte di Beni Bazar, che
va a Parse e a Khaniya Ghat, sulla strada principale fra Baglung e
Pokhara.
A Pokhara lasciamo che corpo e mente si riposino e considerino quanto
sia successo.
Quanto abbiamo saputo trarre e assorbire da quel che abbiamo incontrato
sui nostri passi.
Abbiamo lasciati vuoti da riempire, da tornare a vedere, da cercare,
vuoti in cui perdersi finalmente per ritrovarsi in altri vuoti.
Il Grande Cerchio si chiude a Pokhara, sulle rive
del dorato lago Phewa, sulla strada affollata che lo costeggia
d’un lato, tra giganteschi banyan e pipàl (Ficus
religiosa e Ficus Bengalensis).
Non sentiamo nemmeno un
po’ di stanchezza, se non quella di chi deve partire per un nuovo
giro, attorno alla propria Annapurna, che tutti, tutti abbiamo nel cuore. |