Musica di sottofondo: "Volo così" - Paola Turci   StopPlay

MI CHIEDO

A chi giova l'alpinismo
se non ci rende migliori?
Migliori non soltanto nel momento della lotta,
della conquista,
nell'emozione della difficoltà superata,
della vetta raggiunta,
ma migliori nella vita,
nel nostro camminare e lottare di ogni giorno,
nel superamento delle difficoltà
di ogni momento,
soprattutto nel superamento di noi stessi,
per avere occhi che ci facciano vedere
che non siamo soli,
e che prima di noi ci sono gli altri.

da "Quella Montagna che sta dentro"
di Tommaso Magalotti ediz. Gribaudo

 

Spesso mi interrogo sulla mia felicità nell'andare per monti. Non sono mai riuscito a darmi una risposta. O meglio una risposta definitiva. In un primo tempo ho pensato che fosse la mia passione per la fotografia che poteva trovare un nuovo campo d'azione. Poi la voglia di contrapporre un'attività fisica ad una vita sedentaria. Quando sono riuscito a dominare la mie paure ed acquisire una certa dimestichezza con i movimenti e con l'attrezzatura, ho pensato che fosse l'autocompiacimento di quanto ero riuscito a migliorare fisicamente e tecnicamente. Poi ho iniziato a percepire che alla fine di ogni giornata passata in montagna qualche cosa dentro di me era cambiata però non ero in grado di capire che cosa fosse. Ad ogni occasione, senza rendermene conto, il mio modo di "andare in montagna" cambiava mentre maturava lentamente la consapevolezza che forse la ricerca di una risposta era una fatica inutile. Se mai fosse veramente esistita, al momento giusto tale risposta si sarebbe rivelata in modo del tutto inaspettato e naturale. Una cosa sentivo però con certezza: maggiore era la tranquillità con la quale affrontavo sia le inevitabili difficoltà tecniche che si incontrano in montagna sia lo sforzo fisico necessario, maggiore era la mia determinazione nell'affrontare la vita quotidiana. Un parallelismo illuminante; una prima precisa traccia rivelatrice.
Un'altra domanda mi gira frequentemente nella mente: ma a che cosa pensano i miei compagni di escursione quando raggiunta la vetta guardano tutto ciò che li circonda? Spesso avrei voluto chiederlo; ma non ho mai avuto il coraggio di formulare una domanda diretta e di confrontarmi con loro. Vergogna delle mie emozioni? Ma il stare lì senza parlare forse era già una risposta: il silenzio come massima forma di comunicazione. Si tratta forse della seconda traccia?

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Da diversi giorni mi trascinavo faticosamente tra le mie incombenze quotidiane e la mia inquietitudine urbana. Quello stato di attesa era ormai divenuto insopportabile. Quasi una malattia. Sì, una malattia. Sentivo che dovevo fare qualche cosa. Forse andare tra le "mie montagne" era l'unica soluzione.
Decidere la destinazione era stato semplicissimo. Da mesi (forse anche anni) studiavo le guide di Fabio Cammelli sulle Breònie di Ponente. Un bellissimo articolo di quell’autore pubblicato nell’ultimo numero di Le Alpi Venete aveva tolto ogni dubbio residuo.

Divertimento assicurato. Bellissimi rifugi. Panorami stupendi. Solitudine. Ghiacciai… Uhm!…sui ghiacciai sarebbe meglio andare legati e quindi non soli. Rapido giro di telefonate tra gli amici che naturalmente erano tutti impegnati. Niente da fare. Ma non basta. Dopo un’estate torrida che era iniziata ad aprile con zero termico a 4200 m di quota e che aveva sciolto un buon strato di ghiacciaio, a 2500 m nevicava anche se le previsioni indicavano bel tempo in arrivo.

Era il caso di sentire che cosa dicevano i gestori dei Rifugi. Al telefono quello del Biasi al Bicchiere  mi sconsigliava di avventurarmi solo sul ghiacciaio di Malavalle in quanto la neve ed il vento avevano nascosto alcuni pericolosi grandi crepacci . Di conseguenza il Rifugio Cima Libera non era raggiungibile se non procedendo in cordata.  Dal rifugio Cima Libera mi dicevano invece che non c’erano problemi. Dal bivio sotto la piramide rocciosa del Bicchiere si attraversava il ghiacciaio in piano, seguendo  una traccia segnalata da alcuni pali rossi. Che fare? Meglio partire comunque. Alla peggio sarei arrivato al Rifugio Biasi passando per il Rifugi Vedretta Piana e Pendente. Tutte novità per me e quindi meritevoli. Certo che rinunciare a raggiungere Cima Libera e l’omonimo Rifugio era un bel rospo da mandar giù! 

La Val Ridanna è bellissima. E’ evidente la sua origine glaciale. Con l’automobile si sale progressivamente senza strappi fino a Masseria. Dopo le recenti giornate di freddo e pioggia oggi c’è il sole. L’aria è però ancora fresca.Tutti i turisti che nei giorni scorsi erano stati costretti a passare le giornate a giocare a carte oggi si sono scatenati. Il parcheggio del Museo delle Miniere e quasi al completo. C’è molta gente ma pochi si avventurano verso il sentiero che sale alla Malga dell’Accla. Il peso dello zaino non è indifferente anche perché ho portato l’attrezzatura completa (imbraco, cordini, moschettoni, 20 m di corda da 9 mm, ramponi e piccozza e bastoncini telescopici). Qualche turista sorride a causa del fardello che ho sulle spalle.

Arrivati all’imbocco del Piano dell’Accla il sentiero si divide. Bisogna andare a destra. Finalmente l’ampio spazio del Piano concede un bel panorama. Dopo breve tempo incontro un gruppo di escursionisti di lingua tedesca che scendono. Chiedo loro informazioni sulle condizioni della montagna. Non mi sono di grande aiuto. A causa del maltempo avevano rinunciato a salire sul Bicchiere e quindi non potevano darmi indicazioni. Speriamo bene.

Il sentiero sale progressivamente. Dopo alcune serpentine ed un tratto che corre alto sul torrente incontro una bella cascata. Nel cielo le nuvole vanno e vengono e forse è meglio così. Con il sole il caldo si fa sentire e lo sforzo non è banale. Finalmente vedo in alto un Rifugio. E’ il Vedretta Piana, mentre il Vedretta Pendente è più in alto su fianco della montagna in una posizione veramente incredibile. Ancora pochi passi e posso togliermi lo zaino dalle spalle e cominciare ad ammirare il panorama che dal Vedretta Piana è molto bello anche se delimitato da un cerchio di montagne. Peccato che del ghiacciaio che scendeva fin sotto al Rifugio fino agli anni venti ora non c’è più traccia. Doveva essere veramente uno scenario mozzafiato. Potrei bere qualche cosa e continuare la salita. Ma ho deciso che questo è il mio “viaggio” e voglio godermelo lentamente senza fretta. Decido che ripartirò alle ore 15 in punto e quindi ho due ore per fare la conoscenza del Gestore e della cucina del Rifugio. Un buon piatto di maccheroni alla boscaiola (leggerino…) e poi in giro a fotografare ed osservare con i binocoli. 

E’ ora di ripartire. Il Rifugio Vedretta Pendente si vede benissimo da qui. Sembra eretto sul bordo di un precipizio. Attaccato non si sa bene come alle rocce. Da sotto il sentiero sembra molto ripido. Per fortuna il tracciato è stato ideato con molta astuzia e la salita, pur faticosa, non è mai troppo impegnativa.

Dopo circa 50 minuti di cammino ecco quasi inaspettatamente il Rifugio. Ai suoi piedi un piccolo specchio d’acqua increspato dal vento che da poco si è alzato. Mi sembra impossibile: sono arrivato al Rifugio Vedretta Pendente! Molte volte l’avevo visto in fotografia ed immaginato lo scenario che lo circonda.

Tutta l’area che circonda il Rifugio è curata in un modo perfetto. Alcune galline si rincorrono allegre sul piazzale conferendo alla scena l’inconfondibile sensazione di trovarsi in un luogo accogliente e familiare. Entro nell’edificio ed incontro subito una Signora anziana che mi saluta con un sorriso guardandomi con un’aria un po’ divertita. Non c’è da stupirsi. Il mio aspetto (decisamente sullo sfatto), con i capelli brizzolati un po’ lunghi e tutti scompigliati dal berretto che mi sono appena tolto, è sicuramente ridicolo. Non mi importa, io ho sofferto per arrivare fin qui e non mi interessa far finta di niente per atteggiarmi a quello che “duemilacinquecentometri salita e discesa in sessanta minuti” …anche perché nessuno ci crederebbe.

La Signora di prima è la “nonna” del Rifugio nonché la cuoca. Sono tutti molto gentili . Il nipote mi accompagna nella mia stanza. Ci sono pochi ospiti e così mi viene assegnata una cameretta con quattro posti tutta per me. Che bello, posso svuotare lo zaino seminando ovunque il contenuto. Non capita spesso nei rifugi quasi sempre molto affollati.

Fuori il tempo sta peggiorando. Inizia a far molto freddo anche nella mia camera. Mi cambio rapidamente indossando indumenti asciutti. A lavarsi (e perché?) non se ne parla. Finalmente sono seduto nella Stube a bere un fantastico bicchiere di birra. Non c’è di meglio per dissetarsi ed iniziare a ristabilire l’equilibrio salino del corpo.

Non conosco la nazionalità degli altri ospiti. Certo è che sono l’unica persona che si esprime in lingua italiana. Escludendo i componenti la famiglia del Gestore, sicuramente sono l’unico italiano presente questa sera. Dal libro del rifugio leggo però che di italiani ne transitano diversi ma non quanto gli amici d’oltralpe.

Ora la stanchezza si fa sentire. Meglio andare a letto  anche se il freddo che so dover affrontare in camera sarà un po’ fastidioso. Mi infilo sotto le coperte senza spogliarmi. A mano a mano che mi scaldo mi tolgo qualche indumento fino a raggiungere una situazione confortevole. E’ stato meno traumatico di quel che pensavo. Buona notte.

E’ una mattina limpidissima. Fuori fa molto freddo e tira una leggera brezza di vento. In giro c’è la solita animazione che si incontra nei rifugi quando gli ospiti si stanno preparando a partire. Io sono un po’ in ritardo rispetto agli altri, ma non ho fretta. Prima di far colazione esco a respirare un po’ di aria frizzante. Incontro un signore che è salito dal fondo valle e che intende salire al Bicchiere e scendere in giornata. Mi chiedo se ha senso una cosa del genere. E’ italiano; chiede un po’ di informazioni. Gli indico il Bicchiere. Da qui si vede anche il Rifugio Biasi sulla cima della montagna. Gli sto quasi per proporre di proseguire insieme ma realizzo subito che non è il caso. Io una lumaca, lui mi sembra aver molta fretta.

Saluto la Nonna, il Nipote e la Mamma che ricambiano con molta cortesia. Chissà dove trovano tutta quella pazienza!

Per prudenza indosso l’imbraco e tengo a portata di mano due cordini per l’autoassicurazione sulle corde fisse. Mi avvio sotto il mio fardello. Il programma di oggi è quello di arrivare fin sotto al Bicchiere e poi decidere sul da farsi in base alle condizioni da verificare in loco. Fisicamente mi sento bene. Però c’è qualche cosa che non va. Comincio ad avere qualche dubbio sulla possibilità di realizzare il mio progetto. Supero le prime difficoltà con qualche esitazione. Potrebbe essere il freddo, forse lo zaino pesante, o gli scarponi nuovi in plastica, o la completa solitudine, o forse è semplicemente la voglia di tornare indietro. Mi faccio coraggio. Il sentiero procede con alcuni sali-scendi contornando le pendici meridionali della Croda della Capra. Bisogna superare tre anfiteatri morenici. Nel fondo del secondo c’è un lago che raccoglie le acque di fusione della Vedretta di Malavalle. Il sentiero passa alto. A tratti è faticoso ed agevolato da alcuni funi metalliche. Il terzo anfiteatro è quello creato dal ramo orientale della Vedretta di Malavalle. Da lontano non riesco a capire se l’attraversamento della lingua ghiacciata che lo ricopre parzialmente  possa riservare qualche difficoltà. Ci sono quattro persone impegnate nella traversata, legate in cordata a due a due che stanno proseguendo nella mia stessa direzione. Altre due persone stanno invece camminando verso di me. Sono perfettamente attrezzati e mi sembrano affidabili e chiedo informazioni sulle difficoltà. Mi rassicurano. Il piccolo ghiacciaio è innocuo. Non servono né ramponi né piccozza. Saluto e ringrazio. Io comunque decido di calzare i ramponi anche perché sono di tipo automatico e quindi l’operazione da effettuare è molto semplice. E poi nello zaino costituiscono solo un peso.

La progressione è prima in leggera discesa per poi riprendere in salita. In effetti con ci sono problemi anche se sentire l’acqua di fusione che scorre sotto lo strato di ghiaccio non è il massimo di tranquillità. Sono felice di aver calzato i ramponi. Sensazione che dura poco in quanto quello sinistro dopo un po’ decide di sganciarsi e non ne vuole saper di riprendere il suo posto. Realizzo ora che la sporgenza del puntale dello scarpone sinistro è leggermente più corta di quello destro non consentendo all’attrezzo di rimanere in sede. Bella fregatura. Qui non ci sono problemi ma più avanti? Boh, staremo a vedere.

Inizia ora la salita del fianco meridionale del Bicchiere. Il sentiero sfrutta cenge naturali attrezzate nei punti più esposti. Finalmente arrivo al bivio dove devo prendere la decisione sul tragitto da intraprendere. Salire al Rifugio Biasi al Bicchiere o attraversare la Vedretta di Malavalle raggiungendo direttamente il Rifugio Cima Libera? Una persona sta scendendo dal Bicchiere. E’ l’italiano che ho incontrato questa mattina al Rifugio Vedretta Piana. Dalle poche parole che ci scambiamo intuisco che è sotto stress. Ha sicuramente sottovalutato l’impegno fisico richiesto dall’impresa. Anche sotto il profilo dell’attrezzatura è carente. Si dispiace infatti di non avere un cordino per assicurarsi alle corde fisse e dei ramponi o una piccozza per affrontare la lingua ghiacciata che a breve incontrerà.  La montagna va affrontata sia con l’adeguato allenamento che con l’attrezzatura adatta (questo vale anche per i ramponi che si staccano!). La sicurezza difficilmente accetta compromessi.

Sono stanco e la parete che ho davanti mi sembra abbastanza ostica. L’idea di attraversare in piano la Vedretta di Malavalle e raggiungere il Rifugio Cima Libera mi sembra la più logica. Prendo il sentiero roccioso che va a sinistra. Dopo una decima di minuti finalmente compare il pianoro superiore della Vedretta di Malavalle. Lo scenario è incredibilmente bello ed appagante. Di fronte a me, dall’altra parte della Vedretta, si vede il Rifugio Cima Libera. In cielo ci sono grandi nuvole bianche che si spostano pigramente sopra l'azzurro del cielo. E’ emozionante essere qui. Scatto diverse diapo. Non c’è nessuno. Sono completamento solo. Immortalo il mio zaino quale unica presenza estranea al luogo.

Inizio a scendere. Ci sono dei grandi crepacci sulla mia destra ma la traccia si tiene a debita distanza. La presenza di paletti segnalatori mi tranquillizza. Per fortuna non c’è pericolo di nebbia altrimenti sarebbe veramente un bel problema.

Sono quasi arrivato al Rifugio. Incrocio una cordata che sta dirigendosi verso il Bicchiere. Sono tutti legati ed attrezzati come si deve. Beati loro.

Il livello del ghiacciaio si è abbassato di diversi metri. Per raggiungere il Rifugio bisogna inerpicarsi sul fianco della morena un po’ instabile. Alla fine ecco il Rifugio. In questo momento posso vedere entrambi i Rifugi. In primo piano il Cima Libera, sullo sfondo il Biasi sulla cima del Bicchiere. Semplicemente fantastico.

Il panorama dalla terrazza del Rifugio non lesina spettacolarità. In primo piano i crepacci della Vedretta sovrastati dalla Cima di Malavalle. Verso sud il Capro ed oltre in lontananza le Dolomiti, con la Marmolada, la Civetta, il Pelmo… No non è un sogno. Sono veramente qui. Ce l’ho fatta.

Sulla terrazza c’è ora un po’ di confusione. Gente che arriva. Non molta. Il problema è che all’interno del Rifugio stanno terminando dei lavori di ammodernamento con la realizzazione di una scala di legno che porta al piano superiore ed i pavimenti del piano stesso. Un bel disastro. Fuori si sta bene. Ne approfitto per mangiare un panino (sono due giorni che me lo porto nello zaino) e bere un po’ d’acqua. Osservo attentamente il panorama e cerco di trovare i giusti riferimenti sulla carta geografica. Ora che sono qui il mio desiderio di tornare tra queste montagne con gli sci in primavera è diventato una certezza. Mi immagino questi luoghi ancora coperti di neve, il lento progredire verso Cima Libera e poi la fantastica discesa della Vedretta di Malavalle. Per quell'avventura non potrò però essere solo come oggi e ci vorrà molto allenamento e determinazione.

Fuori comincia a far freddo. Meglio entrare e bere la prima birra della serata.
Anche questa sera, esclusi i componenti la famiglia del Gestore, sono l'unico italiano. Ci sono alcuni gruppi accompagnati da Guide Alpine. In tutto una ventina di persone. Come li invidio. Inizia un po' a mancarmi la compagnia di qualche amico. La notte passa tranquillamente in una bellissima stanza per quattro persone ancora una volta tutta per me.

La mattina è limpidissima. Il primo sole del mattino illumina di luce irreale la Cima di Malavalle che sovrasta l'omonima Vedretta. E' stupenda.  Il programma della giornata prevede l'attraversamento della Vedretta e la salita alla Cima del Bicchiere sulla quale sorge il Rifugio Gino Biasi di proprietà della Sezione di Verona del C.A.I. Per motivi di sicurezza, non senza qualche dispiacere, ho purtroppo escluso la salita alla Cima Libera. Sarà per un'altra volta.
Sul ghiacciaio c'è già una buona traccia. Ricordandomi le notizie che mi aveva fornito telefonicamente il Gestore del Biasi qualche giorno prima, cerco di individuare preventivamente le possibili difficoltà anche in considerazione che non posso calzare i ramponi.

Da lontano sembra tutto facile. Decido di partire. La traccia, prima in discesa, ora è il leggera salita e passa poco lontano da crepacci di notevoli dimensioni. Incontro una cordata che si dirige verso il Rifugio Cima Libera. Ora la traccia forma una S e gira intorno ad un crepaccio. Mi trovo sulla verticale della forcella della cresta che scende dal Bicchiere. Le segnalazioni dipinte sulla roccia indicano di salire dritti su un breve canalino franoso (circa 20 m). Mi sembra molto pericoloso. L'alternativa è quella di proseguire sul ghiacciaio ed affrontare una impennata dello stesso con la traccia che passa parallelamente sopra ad un crepaccio. Slegato e senza ramponi non avrei scampo. Decido di affrontare il canalino. Il terreno è friabile e non ho ancora dimestichezza con gli scarponi nuovi in plastica. Il passaggio chiave lo effettuo con l'aiuto del becco della piccozza che aggancio sotto ad una roccia. Attimi di puro panico. Se scivolo ora sui giornali scriveranno di quanto stupida possa essere una persona che nonostante i consigli del Gestore (Guida Alpina) ha voluto fare di testa propria. Se scivolo ora finisco direttamente dentro al più profondo dei crepacci del ghiacciaio.

Faccio appello a tutte le mie forze e finalmente metto piede sulla forcelletta. Riprendo fiato. A fatica riesco a guardare il panorama che mi si propone dall'altro versante della montagna. Ancora un po' provato salgo la cresta attrezzata e gradinata che si sviluppa sul fianco nord e finalmente arrivo sulla terrazza del Rifugio Biasi. Mi tolgo lo zaino. Ora posso rilassarmi ed ammirare il favoloso spettacolo che mi circonda.

Parlando con il Gestore vengo a sapere che il canalino da me salito si trova in quello stato a causa del caldo torrido di quest'estate che ha fatto scendere il livello del ghiacciaio di diversi metri. Si ricorda della mia telefonata di qualche giorno prima e mi rimprovera per aver affrontato la salita solo nonostante le sue indicazioni negative. Sul quel ghiacciaio accadono spesso incidenti che coinvolgono soprattutto persone slegate. Questa volta mi è andata bene. Per il futuro mi impegno ad essere più prudente. Io ho sicuramente sbagliato perché non dovevo affrontare la traversata solo; il rampone che non vuole rimanere attaccato e le indicazioni dipinte sulla roccia - che forse andrebbero cancellate o coperte - hanno fatto il resto.

Aspetto che il sole illumini nel modo corretto il Rifugio per scattare qualche foto e poi inizio la discesa del fianco sud del Bicchiere. Si tratta di un sentiero ben attrezzato con corde d'acciaio talvolta rivestite con plastica rossa. Procedo con cautela, lentamente e debitamente assicurato con imbraco e cordino. Incrocio in salita delle persone adulte con un ragazzo di circa 10-12 anni. Nessuno è in sicurezza, tutti procedono slegati. Qui qualcuno è pazzo. O forse sono io un po' esagerato nella prudenza?

Il ritorno al Rifugio Vedretta Pendente è veramente lungo. La stanchezza si fa sentire ma i panorami che cambiano frequentemente distolgono l'attenzione dalla fatica e da qualche piccolo dolore ai piedi che inizia a farsi sentire. Finalmente arrivo al Rifugio dove incontro nuovamente la gentilissima "nonna" con il suo sorriso che ancora una volta la dice lunga sul mio stato fisico.

La serata passa tranquilla. La cena è ottima e l'ospitalità sempre generosa. Sono ancora una volta l'unico italiano. E' un luogo bellissimo. Certo non può vantare i panorami che si godono dal Rifugio Biasi o dal Rifugio Cima Libera. Ma la gentilezza di quelle persone compensa ampiamente tale svantaggio.

Riescono a pulire al volo una stanza e quindi ancora una volta avrò una camera tutta a mia disposizione. Sono veramente fortunato.

La mattina è ancora una volta all'insegna del bel tempo, anche se fa un po' fresco. Saluto tutti e scendo lentamente a valle verso gli Opifici di Masseria passando nuovamente per il Rifugio Vedretta Piana.

L'itinerario è lungo. Ogni tanto mi stupisco di quanta strada (e fatica) ho dovuto fare per salire. Solo ora me ne accorgo forse perché i piedi cominciano a far male. Anche le spalle hanno qualche cosa da ridire sotto il peso dello zaino. Ma alla fine arrivo all'automobile.

Come accade spesso, sono "sfatto" ma..."soddisfatto".

Ora sono sereno. Sono riuscito a realizzare quello che mi ero proposto. Ho potuto ammirare luoghi fantastici ma sopratutto ho potuto ascoltare il grande silenzio della solitudine. Un profondo ringraziamento a tutte quelle persone che ho incontrato e che con il loro lavoro e la loro passione hanno reso ciò molto più facile.

 

(All'interno dello "Spazio Soci del Club" sono pubblicate altre fotografie che riguardano questa escursione realizzata nei giorni 2-3-4-5 settembre 2003).

P.S.: qualche giorno dopo sul ghiacciaio di Malavalle ha perso la vita un alpinista austriaco che slegato stava effettuando la traversata tra i due Rifugi. E' la conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che sottovalutare la montagna è molto pericoloso e che i consigli di chi in montagna vive e lavora devono essere sempre tenuti nella massima considerazione. I consigli che queste persone ci offrono sono un insostituibile vantaggio nella valutazione locale del rischio. Non tenerne conto significa giocare deliberatamente con la propria incolumità e con quella di chi poi deve prestarci soccorso.

 

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